
LA PORTA CHE BUSSAVA DALL’ALTRA PARTE
La notte cadeva sul villaggio come una coperta intrisa di cenere. Non c’era freschezza nel buio, solo un calore stantio che ristagnava tra le capanne di fango, trattenendo dentro di sé l’odore acre di paglia marcia e corpi non lavati da settimane. Le mura di terra cruda, spesse quanto un braccio d’uomo, erano state costruite per isolare dal freddo invernale, ma ora imprigionavano il fetore della fame: un misto di sudore rancido, urina concentrata e quel sentore dolciastro che sale dalle gengive quando il corpo inizia a divorare se stesso.
Gli uomini parlavano a bassa voce nei cortili comuni, seduti su pietre levigate dal tempo, con le mani poggiate sulle ginocchia come se anche il peso delle braccia fosse diventato insopportabile. Le loro voci si spegnevano a metà frase, inghiottite dal sibilo costante del vento che soffiava da est, portando con sé granelli di sabbia fine come polvere di ossa. Quel vento sapeva di sale e di terra bruciata, un messaggio muto dal deserto che avanzava giorno dopo giorno, cancellando i confini dei campi arati.
Da mesi, il Purattu — il fiume che i loro antenati chiamavano “il Signore dell’Acqua” — non li abbracciava più. L’acqua era scesa tanto che ora si potevano vedere le pietre del fondo, nere e viscide di alghe morte, esposte al sole come ossa scoperte da un cane affamato. Le donne tornavano dai pozzi con giare che risuonavano vuote quando le sbattevano a terra, e il suono era peggio di un pianto: era l’eco di un vuoto che nessuna preghiera riusciva a riempire. I loro lamenti si mescolavano al vento, un coro di voci rotte che chiamavano nomi di figli già sepolti, troppo deboli per sopravvivere all’ultima luna piena.
I pesci erano spariti, come se avessero scelto un altro mondo. Qualcuno diceva di aver visto, settimane prima, un banco di carpe argentate risalire la corrente verso nord, contro ogni legge naturale, come se fuggissero da qualcosa che neppure loro riuscivano a vedere. Gli ultimi esemplari catturati avevano la carne molle, pallida, che si disfaceva tra le dita prima ancora di arrivare sul fuoco. Nessuno li mangiava più. Li seppellivano, come si fa con i morti.
Le capre avevano smesso di dare latte. Le galline deponevano uova senza guscio, molli sacche traslucide che scoppiavano al primo tocco. Anche gli insetti sembravano spariti: niente mosche sulle latrine, niente zanzare all’imbrunire. Solo un silenzio spesso, appiccicoso, che si attaccava alla pelle e non si lavava via nemmeno con la sabbia.
Nessuno ricordava una carestia simile. I vecchi — quelli abbastanza forti da non essere ancora collassati nei loro giacigli — scuotevano la testa e mormoravano di presagi, di segni che loro stessi non sapevano più leggere. Un’eclisse parziale sei lune prima. Una pioggia di meteoriti verdi che aveva solcato il cielo come unghie di un dio arrabbiato. E poi, il giorno del parto di Inara, un terremoto breve ma violento che aveva fatto crollare l’angolo nord-est del tempio di Tiamat, schiacciando sotto le macerie tre sacerdotesse e sette agnelli destinati al sacrificio.
Eridu era nata in quel tempo di mancanza.
Era sorta come un segno, almeno così dicevano. Ma nessuno sapeva più se fosse un segno di avvertimento o di condanna.
Il suo nome era stato scelto da Inara con un’ostinazione feroce, contro il volere di tutti. Eridu: la prima città, quella dove — secondo i canti antichi — gli dei avevano insegnato agli uomini a scrivere, a contare, a pregare. Un nome troppo grande per una bambina così piccola, così storta, così sbagliata.
Quando l’ostetrica l’aveva tirata fuori, scivolosa di sangue e liquido amniotico, c’era stato un silenzio innaturale. I neonati urlano, sempre. È la prima cosa che fanno: riempiono il mondo con la loro voce, come se dovessero dimostrare di essere vivi. Ma Eridu no. Aveva aperto gli occhi — due pozze di grigio chiaro, come acqua torbida sotto la luna — e aveva guardato. Non con lo sguardo cieco e annebbiato dei neonati, ma con una fissità adulta, inquietante, come se stesse studiando il volto dell’ostetrica per catalogarlo in un archivio invisibile.
Poi aveva emesso un suono. Non un pianto, ma una sequenza ritmica, gutturale: “Ah-ba. Eh-nu. Ah-ba.”
L’ostetrica aveva lasciato cadere il coltello rituale con cui avrebbe dovuto tagliare il cordone. Il ferro era rimbalzato sulle pietre con un tintinnio secco. “Questa bambina parla” aveva mormorato, e nella sua voce c’era terrore più che meraviglia.
Ma non era quello il peggio.
Il peggio era arrivato tre giorni dopo, quando Inara — ancora febbricitante e debole per la perdita di sangue — si era svegliata all’alba e aveva trovato Eridu riversa nel suo giaciglio di paglia, con gli occhi spalancati e fissi, le labbra che si muovevano in silenzio. Sulla pelle bianca della sua spalla sinistra, dove prima non c’era nulla, era apparso un segno: non una voglia, non una bruciatura, ma un simbolo. Linee nere, perfettamente geometriche, che sembravano incise con uno stilo da scriba. Una spirale che si apriva in tre raggi, come un occhio con tre pupille.
Inara aveva chiamato l’ostetrica, che aveva chiamato la levatrice più anziana, che aveva chiamato Asherat — la donna più vicina a una guaritrice che il villaggio possedesse. Nessuna di loro aveva mai visto nulla di simile. Asherat aveva sfiorato il marchio con un dito tremante, e aveva ritirato la mano di scatto, come se il disegno bruciasse. “Questo non è umano” aveva detto, e se ne era andata senza voltarsi.
Eridu aveva sette anni quando tutto precipitò.
Sette anni passati ai margini, nell’ombra. Sette anni in cui Inara l’aveva difesa con le unghie, con i denti, con il silenzio. Sette anni in cui la bambina era cresciuta storta come una pianta nata sotto una pietra: gambe troppo lunghe, braccia troppo magre, dita che si muovevano sempre, sempre, come se stessero scrivendo su una superficie invisibile.
Aveva uno sguardo che non seguiva mai la direzione giusta. Quando le parlavi, girava la testa di lato, fissando un punto appena oltre la tua spalla, come se la tua voce arrivasse da un’altra dimensione. Le mani tremavano anche quando era ferma, un vibrato costante che le impediva di tenere gli oggetti senza farli cadere. La pelle era pallida, di un bianco latteo che sembrava non aver mai visto il sole, nonostante passasse intere giornate rannicchiata nell’angolo del cortile, esposta alla luce abbagliante della Mesopotamia.
Ma era quello che faceva a terrorizzare il villaggio.
La prima volta, aveva tre anni.
Inara l’aveva trovata nel cortile, seduta nella polvere, che disegnava con un dito. Non scarabocchi infantili, non i soliti cerchi e linee scomposte. Schemi. Spirali perfette che si avvitavano su se stesse seguendo un rapporto matematico che nessun bambino di tre anni avrebbe potuto concepire. Ogni giro era esattamente 1,618 volte più largo del precedente, e la spirale si apriva con una precisione che faceva male agli occhi, come se guardare quella forma troppo a lungo potesse rivelare qualcosa che non doveva essere visto.
Un vecchio era passato di lì per caso — Naram-Sin, un ex astronomo-sacerdote che aveva servito nel tempio di Borsippa prima che l’età gli curvasse la schiena e gli annebbiasse la vista. Si era fermato. Aveva guardato. Aveva inspirato forte, un sibilo strozzato in gola.
“Questo è il linguaggio delle stelle” aveva mormorato, e si era allontanato in fretta, trascinando i piedi come se fuggisse da un incendio.
Da quel giorno, nessuno era più entrato nel cortile di Inara.
La seconda volta, aveva cinque anni.
Era crollata durante una festa di villaggio — uno dei rari momenti in cui si tentava ancora di fingere che la vita fosse normale, che gli dei ascoltassero. Stavano cantando un inno a Marduk, il dio che aveva sconfitto Tiamat e ordinato il caos primordiale. Le donne battevano le mani, gli uomini battevano i piedi, e il ritmo si faceva sempre più veloce, sempre più forte, fino a diventare un boato che copriva ogni altro suono.
Ed Eridu era caduta.
Non era svenuta. Si era irrigidita come una tavola, gli occhi rovesciati all’indietro fino a mostrare solo il bianco, la schiuma che le colava dagli angoli della bocca. E poi aveva iniziato a parlare.
Ma non in sumero, la lingua del villaggio. Non in accadico, la lingua dei mercanti. In qualcosa di diverso, di aspro, di gutturale: consonanti dure che si scontravano contro le vocali come pietre lanciate in un pozzo.
“Baruch atah Adonai… echad… echad…”
Nessuno capiva. Ma tutti sentivano. Quella lingua aveva un suono antico, un peso che spingeva contro le orecchie come acqua troppo profonda.
Poi, ancora più inquietante, aveva iniziato a recitare qualcosa che tutti conoscevano: una preghiera sumera incisa su una tavoletta di argilla sepolta tre generazioni prima sotto la capanna di suo nonno, frantumata e dimenticata da decenni. Eridu non solo la conosceva, ma la recitava completa, includendo le parti che erano andate perse quando la tavoletta si era rotta.
Quando si era risvegliata, dieci minuti dopo, non ricordava nulla. Ma il villaggio sì.
Il popolo non la capiva. Non provavano pietà — quella era un lusso che la fame aveva cancellato. Provavano timore, e il timore si era cristallizzato in una verità semplice, brutale: nei loro occhi, Eridu era una bambina sbagliata. Una creatura che portava qualcosa che non apparteneva agli uomini. Una malattia, forse. Una maledizione, sicuramente.
Ogni volta che passava — cosa che accadeva raramente, perché Inara cercava di tenerla nascosta — gli anziani si segnavano il petto con il simbolo di Tiamat, mormorando protezioni contro il malocchio. Le madri tiravano indietro i figli con gesti bruschi, a volte lasciando lividi sui loro polsi pur di allontanarli da lei. I cacciatori smettevano di parlare, stringendo gli amuleti appesi al collo, piccole figurine di terracotta che rappresentavano Pazuzu, il demone che tiene lontano gli altri demoni.
I bambini, crudeli nella loro innocenza, la chiamavano “la storta”, “la lingua-spezzata”, “occhi-vuoti”. Qualcuno le tirava pietre quando Inara non guardava. Una volta, un ragazzo più grande — forse dodici anni, già apprendista fabbro — le aveva sputato addosso, un grumo denso di saliva mista a bile che le era colato lungo la guancia senza che lei reagisse. Aveva solo girato la testa, con quell’angolazione innaturale, e l’aveva fissato. Il ragazzo era scappato. Quella notte aveva fatto pipì a letto per la prima volta da anni.
Con il tempo, la voce si fece più dura. Si fece fame.
Quando il Purattu si ritirò definitivamente — l’acqua che scendeva sotto il livello delle radici, lasciando solo melma nera che puzzava di uova marce — il villaggio iniziò a morire davvero.
Non più lentamente. Non più con dignità.
I bambini morivano per primi, i loro ventri gonfi come otri pieni d’aria, le costole che spuntavano come denti di pettine. Poi i vecchi, che semplicemente si addormentavano e non si svegliavano più. Poi le donne, che continuavano a lavorare fino a crollare, e anche morte sembravano ancora in movimento, le mani contratte in pugni che stringevano zappe invisibili.
Gli uomini — quelli ancora in piedi — iniziarono a radunarsi attorno al fuoco comune ogni sera. Parlavano sempre meno, e quando parlavano, il nome che tornava era sempre lo stesso: Eridu.
“Da quando è nata, il fiume è sceso.”
“Ricordate? Il terremoto, il giorno del parto.”
“Gli spiriti sono irritati. Tiamat non perdona.”
“Qualcuno deve pagare.”
La logica era semplice, terribile, antica quanto la prima carestia: quando la terra si ammala, quando gli dei voltano le spalle, serve un sacrificio. Non un agnello, non un caprone. Quelli non bastavano più. Serviva sangue umano. Sangue innocente. Sangue marcato.
Zur, il capo villaggio, non voleva crederci. O almeno, questo è quello che diceva nelle notti in cui beveva troppa birra d’orzo fermentata e piangeva per i suoi tre figli sepolti sotto le pietre del cimitero. Era stato un guerriero, una volta — aveva combattuto nelle campagne assire, aveva visto città bruciate e bambini infilzati su pali. Aveva giurato che non sarebbe mai diventato come loro, che il suo villaggio sarebbe stato diverso.
Ma un uomo affamato non è più un uomo. È una bocca. È una mano che afferra. È un animale che non pensa, solo vuole.
E così, una sera, quando il vento smise di soffiare e il silenzio divenne insopportabile, Zur parlò.
Lo fece davanti a tutti, in piedi accanto al fuoco morente, con le mani dietro la schiena per nascondere che tremavano.
“Gli dei vanno placati” disse, e la sua voce era quella di un uomo che si stava rompendo dall’interno. “Ogni epoca di fame richiede un sacrificio. Lo sapete. I vostri padri lo sapevano. I loro padri prima di loro.”
Non fece il nome di Eridu. Non serviva.
Settanta occhi si girarono verso la capanna di Inara, e in ognuno di quegli occhi c’era lo stesso pensiero, lo stesso sollievo osceno: Finalmente. Finalmente qualcuno pagherà al posto nostro.
Inara sentì il gelo salire dal ventre, un freddo liquido che le inondò le vene e le bloccò il respiro. Era seduta accanto a Eridu, che dormiva — o almeno fingeva di dormire — con la testa appoggiata sulle ginocchia della madre. Le sue dita si muovevano ancora nel sonno, tracciando schemi invisibili sull’aria.
Inara la strinse forte, così forte da sentire le costole sottili della bambina piegarsi sotto la pressione. “Non ti lascerò” sussurrò, e la sua voce si spezzò come legno secco. “Non ti lascerò, non ti lascerò, non ti lascerò…”
Ma sapeva che era una bugia.
Il villaggio intero stava cercando un colpevole. E lo aveva trovato.[Continua all’interno]
[Tratto da “Ticonderoga” nuovo titolo in lavorazione, seguito naturale di N.O.V.A.]

Il vento entra dalla finestra aperta, portando con sé l’odore salmastro del mare e il retrogusto di carbone delle fabbriche lontane. Le tende di cotone bianco si gonfiano come vele pronte a salpare. Dal cortile, il canto delle cicale riempie l’aria: un suono caldo, vibrante, che sembra misurare il tempo del mattino.
Emiko, la madre, mescola il miso nella zuppa con un cucchiaio di legno. Il ritmo lento del cucchiaio contro la pentola è l’unico metronomo della casa. Haruto, il padre, è seduto a gambe incrociate sul tatami, immerso in un giornale di due giorni prima. Le notizie parlano di Tokyo e di Hiroshima, ma lui si ferma sempre sulle stesse righe, come se cercasse di non capire davvero.
Aiko, la bambina di otto anni, cerca di catturare una lucciola rimasta prigioniera nella stanza. Alla luce del mattino, l’insetto sembra fatto d’oro.
«Papà, guarda!»
Haruto abbassa il giornale. «Anche lei si è svegliata tardi, come te.»
Aiko ride. Le sue trecce danzano nell’aria. Il profumo del riso appena cotto si fonde con l’odore del tatami nuovo. Fuori, un corvo gracchia sul tetto. Poi, silenzio.
È un mattino come tanti. Nessuno può sapere che è l’ultimo.
Il giardino dietro casa è piccolo, ma curato come un tempio. Un susino fiorisce fuori stagione, i suoi petali bianchi profumano l’aria umida. Aiko corre scalza tra le pietre, inseguendo una farfalla bianca che volteggia nell’aria.
«Non andare troppo lontano!» la richiama Emiko.
«Solo un po’, mamma!»
Il vento porta il rumore delle onde lontane, i passi dei vicini, il colpo secco dei bastoni di legno nel cortile accanto, dove un anziano pratica kendō. Aiko si ferma accanto al pozzo. La farfalla si posa sul suo polso. Restano così, immobili, per un istante perfetto. Poi la farfalla vola via, scomparendo tra i rami.
Haruto alza lo sguardo. Un ronzio lontano.
«Un aereo?» chiede Emiko.
«Forse un ricognitore», risponde Haruto, stringendo gli occhi.
Poi sorride: «Aiko, la tua farfalla è arrivata più in alto di lui.»
Torna il silenzio.
Dalla finestra si vede la cattedrale di Urakami, imponente e silenziosa. Le campane suonano un rintocco solo, che si perde tra le cicale.
Haruto si prepara a uscire. La scuola è chiusa da giorni, ma lui porta con sé registri e matite, come se la normalità potesse essere ricostruita con un gesto.
«Papà, oggi mi porti con te?»
«Non oggi. Devo solo parlare con il preside. Torno presto.»
Aiko fa una smorfia. Emiko le sistema il kimono e le infila in tasca un piccolo amuleto di stoffa.
«È di mia madre. Porta fortuna.»
Padre e figlia camminano fino al pozzo. L’acqua è fredda e limpida. Sul sentiero, una donna stende lenzuola bianche. L’odore del sapone di riso si fonde con il caldo del ferro steso al sole. Un barbiere spazza davanti al negozio. Una ragazza passa con un cesto di panni in equilibrio sulla testa.
Tutto sembra normale.
Troppo normale.
Il mercato di Urakami è un dedalo di voci basse. Le bancarelle sono coperte da teli consumati. Le donne scambiano riso, carbone, stoffe usate. Le monete sono rare come le risate dei bambini.
Emiko cammina lentamente, Aiko le tiene la mano. L’odore di pesce secco, alghe e verdure fermentate è denso.
«Mamma, posso comprare una mela?»
«Solo se la trovi rossa come il sole.»
Aiko ne indica una, piccola ma perfetta. Il venditore gliela lascia per una moneta leggera.
«Oggi sei fortunata, piccola.»
Passano alcuni soldati. Le divise sono lise, i visi scavati. Uno si china verso Aiko e le porge una gru di carta.
«Per la pace», dice.
…Aiko la prese con entrambe le mani e s’inchinò.
La gru volò via, danzando sopra le bancarelle. Per un istante, sembrò sorvolare l’intera città… [Conitnua all’interno]
[Tratto da “Ticonderoga” nuovo titolo in lavorazione, seguito naturale di N.O.V.A.]
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